domenica 17 giugno 2018

La morte dell’ippocampo

Comprendimi quando son triste
se resto chiuso
senza parole
Accogli – intorno al tavolo tondo
posti di fronte l’altro –
il mio sguardo di sbieco
col velo lustro del tuo
Ospita la mia mano lenta
nella tua stretta forte
– nell’altra – avanzi di coperta
la colazione è calda

Mi troverai scomparso, sfigurato
come mai in tanti anni son stato
ma non permettermi sgarbo
astio, rancore
mi faresti precisamente del male
Non premiare ciò che voglio raschiare
ciò che sto lasciando
– a fatica – per ricominciare

Non farmi da madre
mamma-pesce-martello
che incrina la mia spina dorsale
Non proteggere ciò che voglio abbandonare
l’orgoglio a cui rinuncio
privilegio ereditario maschile
ordine nobiliare
Non accudire in me
quel senso di possesso
che soffoca il tuo librare

Parlami, invece, d’amore
lingua di gentilezza
d’amore universale
Non farmi ombra di sottana
non esser santa né puttana
sii solo donna tale
smessa la maschera di carnevale

Sì, ti mancherò, lo so
ti mancheranno le trovate
le bizzarrie azzardate
adatte a te
l’ora nella capanna
la scuola di ballo
il record mondiale di bacio
gli stecchini che trafiggono l’albero di Natale

Faremo ancora finta
di non svegliarci col pensiero
per non sentirci affini
sommersi da quell’onda
fascio di cimitero
che investe i capillari
e i figli clandestini
nel limbo degli amari
amori calamari
anelli fritti negli anulari

Mi troverai scomparso, sfigurato
come mai in tanti anni son stato

Comprendimi quando son triste
se resto chiuso
senza parole
Capiscilo che sono triste
Se resto chiuso
nell’ascensore

[Stefano Decandia]

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